Non va dimenticato, infatti, che la disciplina normativa del contratto a tempo determinato, oggi interamente contenuta negli artt. da 19 a 29 del DLgs. 81/2015, oltre a norme di carattere regolatorio, prevede una serie di ipotesi di natura, per così dire, sanzionatoria, che non operano su un piano amministrativo, ma sotto il profilo civilistico, accordando alla parte ritenuta più debole, ossia il lavoratore, una particolare tutela in ragione di determinate irregolarità o condizioni.

La prima ipotesi, sulla quale peraltro è intervenuto il DL 87/2018, attiene alla violazione dell’obbligo di apporre la causale al contratto, prevista dal comma 1 dell’art. 19, secondo il quale il contratto può avere una durata superiore ai 12 mesi, ma comunque non eccedente i 24, solo in presenza di almeno una delle nuove condizioni introdotte dal decreto, ossia: esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività; esigenze di sostituzione di altri lavoratori; esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.
Il successivo comma 1-bis, inserito in fase di conversione del decreto proprio in ottica di tutela, dispone che, in caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle predette condizioni, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di 12 mesi.

La sanzione della trasformazione del contratto da tempo determinato in tempo indeterminato, peraltro in passato già prevista in via giurisprudenziale proprio nell’ipotesi di illegittimità o mancanza delle causali apposte al contratto, ricorre spesso nel Capo III, che detta le regole per il contratto a termine. Il comma 2 dello stesso art. 19, ad esempio, prevede che, qualora venga superato il limite legale dei 24 mesi, quale soglia massima di durata, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il rapporto si trasforma a tempo indeterminato dalla data di tale superamento.

La trasformazione viene, altresì, collegata alla violazione dei divieti fissati dall’art. 20, secondo il quale l’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa: per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi; presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni; da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi.
Altre casistiche di trasformazione si hanno con il superamento del numero massimo di quattro proroghe (art. 21, comma 1), con decorrenza dalla data della quinta proroga, oppure nell’eventualità in cui il lavoratore sia riassunto a tempo determinato entro dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi (c.d. “stop and go”); in tal caso il secondo contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.

Non va poi dimenticata la fattispecie della continuazione del rapporto oltre la scadenza del termine, regolata dall’art. 22, comma 2, in ragione del quale qualora il rapporto di lavoro continui oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.

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Sanzione amministrativa se si supera il limite totale di contratti a termine

Diversamente, per la violazione del numero massimo di contratti a tempo determinato, il legislatore all’art. 23 ha previsto unicamente l’applicazione di una sanzione amministrativa, con l’espressa esclusione della trasformazione.

Per completezza va, infine, ricordato che nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità e ciò a ristorare per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.