Si può fare l’amministratore anche gratis?

Si può fare l’amministratore anche gratis?

L’amministrazione finanziaria non può assoggettare a tassazione il compenso dell’amministratore
di una società in mancanza di prova contraria da parte del contribuente, non potendo la stessa fondare tale pretesa su una presunzione, inconferente in presenza di un diritto disponibile, quale quello dell’amministratore al compenso da parte della società.
Sono queste le conclusioni cui è giunta sostanzialmente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18643 del 13 luglio 2018.

Nel caso in questione – che porta la Cassazione ad esaminare un avviso di accertamento emesso nel lontano 1981, per l’annualità d’imposta 1975, peraltro passato pure attraverso l’esame della Commissione Tributaria Centrale – veniva contestato, fra l’altro, da parte dell’allora Ufficio distrettuale delle imposte dirette, l’assenza di compensi per l’attività di amministratore di alcune società. In pratica, il maggior reddito da lavoro autonomo veniva rideterminato dall’Ufficio sulla base della presunzione secondo cui le varie cariche sociali ricoperte dal contribuente in seno a diverse società di capitali non potessero che essere a titolo oneroso.

La Corte di Cassazione, adita dagli eredi del contribuente, ritiene, innanzitutto, che “la decisione impugnata non indica minimamente quali siano gli elementi probatori, sub specie di presunzioni gravi, precise e concordanti, da cui risulterebbe la correttezza dell’accertamento: la CTC, invero, opera unicamente un riferimento alla ristretta base azionaria delle società in esame per inferirne la distribuzione di utili non contabilizzati; ma ciò non basta a sorreggere l’ulteriore – e diversa – presunzione che il D.P. avesse anche percepito compensi quale amministratore delle predette compagini e che, in caso affermativo, gli stessi fossero emolumenti ulteriori rispetto agli utili percepiti (cfr. l’art. 2389 c.c., comma 2, secondo cui i compensi agli amministratori “possono essere costituiti in tutto o in parte da partecipazioni agli utili”)”.

La Corte, quindi, afferma il seguente principio: “in materia di accertamento delle imposte sui redditi, l’amministrazione finanziaria non può pretendere, presumendone la onerosità, di assoggettare a tassazione il compenso dell’amministratore di una società in mancanza di prova contraria da parte del contribuente, non potendo la stessa fondare tale pretesa su una presunzione, inconferente in presenza di un diritto disponibile, quale quello dell’amministratore al compenso da parte della società. (Cass. Sez. 1, 11/03/1998, n. 2671, Rv. 513561 – 01; sul fatto che il diritto al compenso professionale dell’amministratore ha natura disponibile e può essere oggetto di una dichiarazione unilaterale di disposizione da parte del suo titolare nella specie, di rinuncia -, cfr. Cass. Sez. 1, del 13/11/2012, n. 19714, Rv. 624428 – 01)”.

Come si vede già oltre 35 anni fa gli Uffici contestavano la gratuità della prestazione, eccependo ai professionisti lo svolgimento di attività rese a titolo gratuito, contestando come – dietro alle stesse – vi fossero in realtà compensi percepiti “in nero”.
L’analisi ragionata della fattispecie in esame e dei principi probatori vigenti in campo tributario conducono a prospettare precisi oneri a carico del contribuente, il cui baricentro dimostrativo ci appare mobile, da calibrare, cioè, sia sulla natura della prestazione resa senza compenso e sia sulla struttura professionale sulla quale la stessa è andata ad incidere1.

Detta sentenza, nello specifico, contrasta con la pronuncia n. 1915 del 21 novembre 2007 (dep. il 29 gennaio 2008), dove, invece, la Corte di Cassazione ha legittimato la presunzione secondo cui le attività di amministratore di una società e di condominii dia luogo a compenso; di conseguenza, non è incongrua od illogica la valutazione del giudice di merito che abbia negato valore di prova dell’autodichiarazione con cui l’amministratore di una società attesti di non aver ricevuto alcun compenso per la sua attività. I giudici di Cassazione hanno rigettato il ricorso presentato da un amministratore di una srl e di due condomini, confermando l’operato dell’Amministrazione finanziaria che gli aveva contestato la gratuità delle prestazioni offerte, ricorrendo ad una ricostruzione induttiva. In pratica, secondo la Corte, l’ufficio aveva fatto bene a ricorrere a tale metodologia accertativa dal momento che tali attività “normalmente” sono retribuite, richiamando al riguardo l’articolo 2389 c.c. I Supremi giudici, inoltre, in ordine alla ritenuta fondatezza della pretesa, richiamano il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui “ai fini della prova per presunzioni semplici non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, in quanto è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità” (Cass. n. 26081/2005; n. 23079/2005; n. 2700/1997; n. 3302/1996). Afferma la Corte: “posto, in vero, il fatto noto e pacifico dell’espletamento delle citate attività, appare assolutamente ragionevole presumere che la stessa sia stata retribuita nei termini di cui all’accertamento, avuto riguardo, peraltro, al fatto che il contribuente non ha offerto prova della gratuità dei mandati, né di altri elementi idonei ad escludere la realizzazione, dall’attività svolta, di reddito fiscalmente rilevante”. La Corte, ancora, in ordine alla doglianza di parte secondo cui i Giudici di appello non avrebbero riconosciuto la dovuta rilevanza probatoria alla dichiarazione attestante la gratuità dell’attività svolta ed al verbale dell’assemblea, rilevano che “le doglianze esplicitano una mera affermazione di dissenso rispetto alla soluzione cui sono giunti i Giudici di merito”, ed esse risultano formulate, per un verso, “in violazione del principio di autosufficienza (Cass. n. 24461/2005; n. 17427/2003; n. 849/2002; n. 2613/2001), perché non vengono trascritte le risultanze degli atti ritenute rilevanti ai fini decisionali, ed anche del condiviso orientamento giurisprudenziale, secondo cui la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione, se non sotto il profilo della incongruità della motivazione per la presenza di vizi logici e giuridici (Cass. n. 23286/2005; n. 12014/2004; n. 322/2003)” 2.

Un’attenta riflessione sulle pronunce di legittimità e dei principi in materia di prova ci porta a ritenere che l’Ufficio possa far riferimento alla gratuità della prestazione per fondare la propria pretesa impositiva qualora la stessa non sia sostenuta da giustificazioni “credibili” da parte del contribuente, sul quale incombe l’onere di spiegare il perché abbia posto in essere una condotta in contrasto con la naturale onerosità della prestazione professionale (id quod plerumque accidit).

Se è vero che da un punto di vista prettamente civilistico – afferente i limiti dell’autonomia contrattuale delle parti – la giurisprudenza di legittimità è giunta alla conclusione che l’onerosità, pur costituendone un elemento normale, non rappresenta un elemento essenziale dei contratti di prestazione d’opera intellettuale , essendo consentito alle parti escludere il diritto del professionista al compenso , è altrettanto vero che da un punto di vista fiscale, e più propriamente accertativo, rimane quanto mai vivo il problema dell’ammissibilità delle prestazioni gratuite, considerata la potenziale capacità elusiva insita in un loro uso distorto.

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