Con la sentenza n. 23891, depositata ieri, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’uso dei permessi previsti dall’art. 3, comma 3 della L. 104/1992 per l’assistenza di familiare disabile.

In particolare, la disposizione citata riconosce al lavoratore, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità – coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti – il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.

Nel caso specifico, al lavoratore era stato contestato di aver utilizzato i permessi in questione per fini estranei all’assistenza della madre e della sorella, entrambe in condizioni di handicap grave, e per questa ragione era stato licenziato senza preavviso.
Gli addebiti mossi consistevano, in particolare, nell’aver fatto la spesa, essersi recato presso uno sportello Postamat, aver incontrato un geometra e un architetto nell’orario di fruizione dei permessi.
Tali attività, però, secondo quanto emerso dall’istruttoria del giudizio, risultavano essere ricollegate a specifici interessi ed utilità dei familiari assistiti. Di conseguenza, i giudici del merito avevano escluso la finalizzazione a scopi personali delle ore di permesso fruite dal lavoratore e, pertanto, avevano dichiarato l’illegittimità del licenziamento per insussistenza dell’addebito.

La Suprema Corte, con la sentenza di ieri, ha avallato la decisione di merito, così confermando che l’assistenza in favore dei congiunti disabili deve essere intesa in una accezione ampia, comprensiva del disbrigo di incombenze e pratiche di vario contenuto, e non, quindi, riduttivamente, come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione.
Qualora, però, il lavoratore si avvalga dei permessi di cui all’art. 33 della L. 104/1992 non per l’assistenza al familiare – da intendere, come detto, in senso ampio – ma per attendere ad altra attività, la sua condotta continua ad integrare, per la Cassazione, l’ipotesi di abuso di diritto.

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