Inabilità al lavoro e licenziamento

Inabilità al lavoro e licenziamento [E.Massi]

Con la sentenza n. 8419 del 5 aprile 2018, la Cassazione ha riconosciuto la legittimità di un licenziamento adottato da un datore di lavoro nei confronti di un proprio dipendente affetto da una grave malattia da cui era scaturita una inabilità permanente al lavoro: i giudici della Suprema Corte, che ha confermato la decisione della Corte di Appello di Napoli, lo hanno ritenuto possibile sulla base del fatto che in azienda non sussistevano non solo posizioni alternative di pari livello o di livello inferiore congrue, in un’ottica di “repechage” finalizzato alla salvaguardia del posto di lavoro, ma anche perché una eventuale assegnazione parziale in una determinata posizione avrebbe comportato riflessi non trascurabili sull’organizzazione aziendale.

Ma, quale è il fatto che ha dato origine al provvedimento espulsivo?

Il datore di lavoro (società che gestiva una pompa di servizio) era arrivata alla conclusione di recedere dal rapporto di lavoro in quanto, la sopravvenuta infermità (linfoma di Hodgkin) non consentiva di collocare il lavoratore in altra posizione, in considerazione delle scelte organizzative adottate e del fatto che, in quel momento, le difficoltà aziendali avevano portato alla risoluzione anche di altri rapporti, nonché alla mancata riassunzione di due lavoratori stagionali.

Il lavoratore licenziato si era dichiarato disponibile ad una attività di gestione della pompa di “self-service” sostenendo, nel ricorso, come sul datore di lavoro gravasse un obbligo di reperimento e di assegnazione di mansioni consone allo stato di salute.

La Cassazione, come già accertato dai giudici di appello, ha ritenuto infondato il ricorso, pur in presenza del principio che la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore non rappresenti “a priori” un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, sulla base di alcune considerazioni che possono così sintetizzarsi:

  • il servizio alla pompa “self-service” non rappresenta un profilo professionale autonomo;
  • l’adibizione del lavoratore al “self-service” avrebbe comportato un adempimento solo parziale della prestazione lavorativa pattuita;
  • una scelta diversa da quella del licenziamento avrebbe comportato spostamenti nell’attività di altri dipendenti con modifica della tipologia delle loro mansioni;
  • una diversa organizzazione del lavoro avrebbe comportato da un lato una alterazione dell’organigramma aziendale e, dall’altro, l’esposizione degli altri lavoratori ad un maggior rischio di salute.

Da quanto appena detto emerge un principio: il bilanciamento degli interessi del lavoratore con quelli del datore di lavoro, doveroso in un’ottica di “repechage”, presenta un limite obiettivo. L’attribuzione di mansioni compatibili con uno stato di morbilità che ha una natura permanente non deve collidere con l’interesse del datore di lavoro, che pur ha pensato agli adattamenti necessari nell’organizzazione aziendale, ma che non è tenuto a stravolgere l’organizzazione dell’impresa con pregiudizio anche per le altre posizioni dei lavoratori.

Il principio affermato dalla Corte di Cassazione può riverberare i propri effetti anche sulla posizione lavorativa di altri soggetti che pur si trovano in una posizione “protetta”.

Mi riferisco, essenzialmente alle tutele previste dagli art. 4, comma 4 e 10, comma 3, della legge n. 68/1999, dall’art. 42 del D.L.vo n. 81/2008 e dall’art. 15 del D.L.vo n. 276/2003.

Ma, andiamo con ordine.

Per quel che concerne i casi richiamati dalla legge n. 68/1999 ricordo che l’art. 4, comma 4, riguarda i dipendenti divenuti inabili con una riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 60% i quali, in caso di destinazione a mansioni inferiori, hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza: il recesso appare possibile soltanto se non vi sia la possibilità di assegnazione a mansioni equivalenti od inferiori. Tale principio, tuttavia, va, alla luce del principio di diritto enunciato dalla sentenza n. 8419, bilanciato con gli effetti che tale assegnazione può avere nell’organizzazione dell’impresa.

L’art. 10, comma 3, concerne l’ipotesi dell’aggravamento dello stato di salute del lavoratore disabile (non dovute a responsabilità del datore legate al mancato rispetto della normativa sulla sicurezza) o di significative variazioni alla organizzazione del lavoro intervenute.

La disposizione prevede accertamenti sanitari da parte degli organi pubblici competenti cosa che non comporta, in alcun modo, la risoluzione del rapporto che, invece, può intervenire allorquando venga accertato che, anche attuando specifici adattamenti nell’organizzazione del lavoro, non è possibile una occupazione proficua.

Va, in ogni caso, ricordato il contenuto del comma 4 dell’art. 10: il recesso al termine di una procedura collettiva o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti di un lavoratore occupato obbligatoriamente è annullabile, qualora nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti dipendenti occupati nel rispetto dell’aliquota d’obbligo, risulti inferiore alla quota di riserva.

Per completezza di informazione, ricordo che il successivo comma 5, impone al datore di lavoro che licenzia un dipendente disabile (ma anche se si dimette), di darne esplicita comunicazione ai servizi per l’impiego, per la sostituzione dello stesso con altro soggetto avente diritto.

La previsione contenuta nell’art. 42 del D.L.vo n. 81/2008 trae origine dalle visite mediche obbligatorie effettuate dal medico competente che abbiano accertato una inidoneità totale (o parziale) alla mansione svolta (art. 41, comma 6). Ebbene, ricorda l’art. 42 che il datore di lavoro, deve attuare le misure indicate dal medico competente finalizzate anche alla adibizione del lavoratore a mansioni equivalenti od inferiori con la garanzia del trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza: se non ci riesce può procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

L’ultima ipotesi richiamata riguarda il lavoro notturno che i dipendenti, con le eccezioni espressamente previste dalla legge, sono tenuti a prestare a meno che non ne sia stata accertata l’inidoneità attraverso le strutture sanitarie pubbliche. In presenza di apposita certificazione che ne certifichi l’inidoneità, il datore di lavoro può trasferire il dipendente al lavoro diurno, sempre che sia disponibile un posto per mansioni equivalenti. Se ciò non è possibile il rapporto può essere risolto per giustificato motivo oggettivo.

Ovviamente, a fronte di un licenziamento motivato dalla impossibilità di trovare un’altra collocazione all’interno dell’azienda anche di livello inferiore, il lavoratore può ricorrere in giudizio e, nel caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica e qualora si ritengano ininfluenti, rispetto alla decisione, i principi espressi nella sentenza n. 8419, condanna il datore di lavoro, secondo la previsione contenuta nell’art. 2 del D.L.vo n. 23/2015 (norma che vale per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015, ma quella precedente, contenuta nell’art. 18 è, sostanzialmente, analoga):

  • alla reintegra nel posto di lavoro: il rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non ha ripreso servizio nei trenta giorni successivi all’invito del datore di lavoro a seguito della sentenza di condanna, fatta salva l’ipotesi riportata sub c);
  • al risarcimento del danno subito dal lavoratore: il comma 2 dell’art. 2 parla di una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente ad un periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto, quanto percepito durante il periodo di estromissione a causa dello svolgimento di altre attività lavorative (c.d. “aliunde perceptum”). La misura del risarcimento prevede una sorta di “minimum”, nel senso che non può essere inferiore alle cinque mensilità calcolate sempre nel modo appena evidenziato. Sul datore di lavoro grava, a mo’ di condanna, il pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per l’intero periodo;
  • al lavoratore viene riconosciuta la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in luogo della reintegra, una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, pari a quindici mensilità calcolate sempre nel modo evidenziato sub b). La richiesta dell’indennità (la cui natura, pur nel silenzio della norma, è, indubbiamente, risarcitoria) deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dell’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore a tale comunicazione.

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