Fermo restando che la finalità espressa della disposizione normativa è senz’altro quella di garantire alle aziende una ricollocazione interna più efficace del lavoratore, evitando quindi eventuali licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, non si può trascurare il fatto che la novità apportata abbia comunque conferito un ampio spazio di manovra nella gestione delle mansioni dei lavoratori.
Infatti, se nella vecchia formulazione dell’art. 2103 c.c. era previsto che il lavoratore dovesse essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita ovvero, ancora, alle mansioni “equivalenti alle ultime effettivamente svolte”, vietandone in ogni caso l’adibizione a mansioni inferiori, in conseguenza delle previsioni del DLgs. 81/2015 è possibile operare un mutamento di mansioni, seppur diversificato, a seconda delle ragioni che ne costituiscono la base giustificatrice.

Con particolare riferimento all’assegnazione di mansioni inferiori (c.d. demansionamento), il datore di lavoro ha la facoltà di decidere unilateralmente l’attribuzione al proprio dipendente di mansioni inferiori rispetto al livello di inquadramento, purché rientranti nella medesima categoria legale ex art. 2095 c.c. (operai, impiegati, quadri e dirigenti).
Tale facoltà è esercitabile in due ipotesi: una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore e in caso di espressa previsione dei contratti collettivi, non essendo possibile infatti modificare unilateralmente e in modo peggiorativo le mansioni del lavoratore in assenza di tali presupposti. Dunque, il nuovo art. 2103 c.c. determina nuove ipotesi di demansionamento esercitabili in modo unilaterale dal datore di lavoro, prescindendo dal consenso del lavoratore.
In altri termini, il demansionamento può riguardare soltanto le mansioni relative al livello di inquadramento immediatamente inferiore rispetto a quello in cui è collocato il dipendente, e comunque sempre se ciò non comporti la retrocessione in una categoria legale inferiore a quella di appartenenza (cfr. circ. Fondazione Studi Consulenti del lavoro n. 13/2015).

Per operare un demansionamento è comunque necessario procedere secondo il dettato dell’art. 2103 c.c., che prevede che il mutamento di mansioni sia comunicato per iscritto, a pena di nullità e che il datore di lavoro, ove necessario, assolva l’obbligo formativo.
Quanto alla comunicazione scritta, la norma non indica l’obbligo di specificare le ragioni del demansionamento, motivo per cui si ritiene che la mancanza di tale elemento non dovrebbe causare la nullità dell’atto. In caso di esito positivo, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Quanto affermato finora costituisce la regola che dovrà necessariamente essere seguita in caso di decisione unilaterale del datore di lavoro, ma la norma concede anche l’opportunità di derogare ai predetti principi mediante accordi individuali tra le parti.
Infatti, il demansionamento può riguardare sia le mansioni che la categoria legale e il livello di inquadramento, nonché la relativa retribuzione, purché vi sia un interesse specifico del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. In tali casi, il lavoratore conserva la possibilità di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, da un avvocato ovvero ancora da un consulente del lavoro.

Al fine di tutelare il lavoratore, che è la parte “debole” del rapporto di lavoro, la norma prevede che l’accordo individuale debba essere concluso nelle sedi preposte alla conciliazione delle controversie in materia di lavoro (art. 2113 c.c.) o dinnanzi alle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro, istituite dall’art. 76 del DLgs. 276/2003.
Rientrano in quest’ultima fattispecie: gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento o a livello nazionale quando la commissione di certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale; l’Ispettorato territoriale del lavoro e le università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie, esclusivamente nell’ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo ai sensi dell’art. 66 del DPR 382/1980.

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