Caffettometro valido per il controllo del Fisco

CAFFETTOMETRO VALIDO PER IL CONTROLLO DEL FISCO

GLI UFFICI POSSONO ACCERTARE INDUTTIVAMENTE I RICAVI DEL BAR SULLA BASE DEL CAFFÈ CONSUMATO

La contabilità tenuta regolarmente non esclude la legittimità dell’accertamento analitico – induttivo del reddito d’impresa. L’ufficio, se ritiene che la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente e sostanzialmente inattendibile, può dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi. Gli incassi del Bar, se ritenuti insufficienti dal Fisco, possono essere rideterminati con il cosiddetto “caffettometro”. Per la Cassazione, ordinanza 21130/18, depositata il 24 agosto 2018, va confermata la sentenza n. 326/2016, della Commissione tributaria regionale di Napoli, che aveva correttamente rideterminato i ricavi del Bar sulla base del consumo di caffè. Ecco i fatti.

L’Agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Benevento, emette un accertamento per l’anno 2005 nei confronti di un Bar, elevando il reddito dichiarato di 25.858,00 euro, a fronte di ricavi dichiarati per 199.139,00 euro. Il ricorso in primo grado è stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Benevento. L’ufficio proponeva perciò l’appello contro la sentenza dei giudici di primo grado, con i giudici di secondo grado che ribaltavano quasi interamente la sentenza, dando ragione all’ufficio, e rideterminando i maggiori ricavi conseguiti in 25mila euro, rispetto ai 25.858,00 euro accertati. Contro la sentenza dei giudici di secondo grado, il contribuente ha proposto ricorso in Cassazione, che i giudici di legittimità hanno respinto, condannando altresì lo stesso al pagamento delle spese processuali liquidate in 2.200 euro, più accessori.
I giudici di legittimità hanno confermato la sentenza della Commissione tributaria regionale che ha ritenuto legittimo l’operato dell’ufficio, che aveva correttamente calcolato in 8 grammi la polvere di caffè occorrente per una tazzina di caffè, tenendo conto degli sfridi, in quanto, per un caffè, vengono normalmente considerati sufficienti 5, 6 o 7 grammi.

I giudici di secondo grado avevano anche tenuto conto del fatto che il Bar era ubicato in una zona dove erano concentrati cinque esercizi della stessa specie. Visto, infine, che l’ufficio non aveva considerato nel suo calcolo il caffè impiegato per preparare cappuccini e quello venduto in confezioni ai clienti, la Commissione tributaria regionale di Napoli aveva ridotto da 25.858,00 euro a 25mila euro i maggiori ricavi conseguiti dal Bar.

Contro la sentenza dei giudici di secondo grado, il contribuente ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che l’ufficio non ha considerato che, in presenza di regolari scritture contabili, l’ufficio non aveva dedotto presunzioni gravi, precise e concordanti, tale non essendo la percentuale di ricarico applicata sui prodotti, con la conseguenza che l’accertamento induttivo è da ritenere illegittimo. Per la Cassazione, il ricorso del contribuente è infondato. I giudici di legittimità hanno già avuto modo di affermare il principio secondo il quale «Sia in tema di accertamento delle imposte sui redditi che di accertamento ai fini Iva, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico – induttivo del reddito d’impresa, sempre che la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente e sostanzialmente inattendibile, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente. In siffatta ipotesi, pertanto, è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, ai fini delle imposte dirette e dell’Iva» (Cassazione n. 6951/2017; Cassazione n. 4312/2015; Cassazione n. 6849/2009; Cassazione n. 13319/2011). Per la Cassazione, la censura del contribuente «involge il giudizio in fatto reso dalla CTR secondo la quale gli elementi forniti dall’ufficio costituivano presunzioni gravi, precise e concordanti, per il che la doglianza relativa all’illegittimità dell’avviso di accertamento in quanto fondato su presunzioni prive delle citate caratteristiche è infondata».

Per la Cassazione, quindi, il ricorso deve essere rigettato con condanna del contribuente a pagare le spese di giudizio liquidate in 2.200 euro, più eventuali altre spese prenotate a debito.

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